Le nostre Chiese

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Santa Maria de Arce

Sulla sommità della rocca, la chiesa di Santa Maria de Arce prese il nome dalla sua posizione: arx in latino è rocca, cittadella, altura. Posta ai limiti dell’antica piazza d’armi dei Colonna, da sempre fu legata alla residenza signorile: realizzata per i militari, solo in un secondo momento divenne infatti chiesa parrocchiale e solo dopo la metà del XVII secolo venne abbellita dai Theodoli: sul portale sormontato da un timpano spezzato, si riconosce lo stemma del casato marchionale. Il Rocca ne fa risalire la datazione al 1400, poiché Bartolomeo Piazza riporta che in una campana fosse scritto in gotico: A.D. 1489 Magister Petrus de Petrinianus fecit.
A tre navate, la chiesa era in origine una stanza con il tetto a schiena d’asino ricoperto di tavole, sostituite poi da embrici.
Interessante è, sull’altare maggiore, lo spicchio centrale della cupola, dove compare un angelo che incensa il paese, appena visibile. Nella parete d’altare l’ Assunzione in Cielo di Maria è attribuita a Carlo Maratta (1625-1713) o alla sua scuola, mentre la Natività e l’Annunciazione nel presbiterio rispettivamente di sinistra e di destra ad Aronne Del Vecchio (1910-1998) che si stabilì in paese fin dal 1945 e che ebbe anche altre commissioni.
Mentre la navata di sinistra ha una seconda porta di ingresso, in quella di destra si apre una cappella dedicata alla Passione di Cristo e nella quale è rappresentato Gesù orante nel Getsemani: per questa ragione è il luogo in cui sono allestiti i Sepolcri nella sera del giovedì Santo.

San Biagio Martire

Nell’abitato medievale, ricco di arenarie affioranti, la Chiesa di San Biagio venne realizzata su un antico oratorio preesistente. Datato intorno al 1200, questo fu il primo nucleo dal quale si sviluppò la chiesa che venne ricostruita ex novo ed ampliata tra il 1607 ed il 1609 e rappresentò uno dei simboli della valenza artistica dei Theodoli: disegnatore fu l’architetto e Signore della Terra di San Vito Giovanni Theodoli. I più importanti restauri successivi al Seicento sono databili a dopo il 1830, durante i quali vennero aggiunte le due cappelle all’altezza del presbiterio, rispettivamente di San Giuseppe, a destra dell’altare, e di Maria Santissima del Rosario, a sinistra. Le cappelle, con scene della vita di San Giuseppe nell’una e della Vergine nell’altra, sono state tuttavia decorate dall’Antonelli durante gli anni dell’importante restauro voluto da Don Augusto Zazza tra il 1927 e il 1929, come testimoniano due iscrizioni all’interno della chiesa e i diversi atti redatti dallo stesso

parroco, che fa risalire la consacrazione al 1777. Nella pala d’altare, di importanti dimensioni, si riconosce a destra del Santo una donna col bambino che lo invoca perché Egli guarisca il figlio, soffocato da una lisca di pesce. Per questa ragione il vescovo e martire Biagio è invocato per i mali della gola, nella ricorrenza del 3 febbraio. Ad unica navata, la chiesa è ricca di elementi decorativi: lungo quasi tutto il soffitto l’opera di un tale Enrico Cinti fa presupporre alcune maestranze locali, ma non vi sono ad oggi addentellati che possano validare l’ipotesi. Gli altari laterali sono dedicati: a destra a Sant’Ambrogio, ai Santi Giovanni Battista ed Evangelista, mentre a sinistra il primo a Sant’Andrea Apostolo ed il successivo ai Santi Pietro e Paolo. Il mosaico decorativo dinnanzi all’altare resta a significare il prezioso contributo dato dai Theodoli alla costruzione della chiesa e agli ultimi interventi di restauro di fine anni Venti, per i quali vennero date importanti somme sia dai cittadini, sia da Alfredo Rocco che da Pietro Baccelli. Lo stemma dei Baccelli, infatti, l’unico rimasto a San Vito, è ben conservato nella Cappella di San Giuseppe e sul cartiglio di destra dell’altare maggiore: le pere fogliate denotano la provenienza da Firenze Peretola e la generosità della famiglia che diede i natali all’illustre medico Guido.

Santuario Madonna di Compigliano

La breve strada di campagna che conduceva al Santuario della Madonnina era anticamente nota come Strada di Campigliano, probabilmente dal nome del colle con il ripiano intorno, sul quale nel 1500 circa, la Vergine apparse ad un giovane pastore sordomuto. Campigliano divenne col tempo Compigliano.Poiché nel vederla tra i rami di un ciliegio il fanciullo riebbe la parola e l’udito, la Vergine iniziò ad essere venerata sul luogo del miracolo, dove venne costruita un’Edicola ampliata nel tempo. Nella facciata, più volte soggetta ad interventi di restauro, coerenti con l’ampliamento dell’edificio, è visibile in alto, nella parte centrale, il monogramma mariano, nel cartiglio l’iscrizione dell’ultimo intervento di restauro che ci è documentato e che è quello del 1925.La tela sull’altare maggiore che raffigura la Madonna col Bambino in braccio venne realizzata su una tavola dello stesso ciliegio sul quale avvenne l’apparizione. L’effigie, di difficile datazione, fu restaurata dal Prof. Aronne Del Vecchio (1910-1998) nel 1948, anno in cui la Vergine Santissima di Compigliano venne incoronata. Sotto il Pontificato di Papa Pio XII, il 23 maggio 1948 ne venne infatti formalmente riconosciuta la consacrazione ed il 22 agosto, giorno in cui la Chiesa Universale celebra la B.V. Maria Regina, avvenne la tanto attesa incoronazione. Fino ad allora, infatti, la Madonna di Compigliano veniva festeggiata l’8 settembre, nel giorno della natività della Vergine. Tuttavia poiché in quell’anno venne ritrovata l’effigie della Madonna durante le pulizie della chiesa per il mese mariano, si decise di celebrare l’evento e di richiedere l’ufficialità della festa. La corona in oro venne realizzata grazie al contributo dei sanvitesi, che non diedero solo soldi, ma anche oro vecchio. La preghiera, invece, venne scritta dai Padri Trinitari. Il pranzo per la giornata di festa venne offerto da Leone Rocca e sua moglie Elisa Cinti, che tanto si adoperarono per l’abbellimento della chiesa.

Il Santuario ˗ così chiamato solo dopo l’incoronazione del 1948 ˗ venne costruito alla fine del Sedicesimo secolo per volere dei cittadini e fino al 1890 fu considerato come chiesa rurale accessibile solo da una stradina di campagna, quasi priva di abitato intorno.
Inizialmente realizzato su un unico blocco architettonico e su un’unica navata, il Santuario fu ampliato e rifinito tra la fine del Settecento e la metà del Novecento.

La sagrestia venne realizzata nel 1790, per volere della famiglia Sallusti, mentre le navate laterali sono del 1890, la cantoria sulla controfacciata risale, invece, al 1918. L’organo, infatti, venne donato da Paolo Quaresima, per onorare la memoria del figlio Nicola, sottotenente di Fanteria, caduto durante la prima guerra mondiale per la liberazione di Gorizia, come ne ricorda una lapide. L’Antonelli, già attivo in San Vito Romano nella Chiesa di San Biagio tra gli anni venti e gli anni quaranta, decorò il soffitto della navata centrale, liscia a tutto sesto, con scene di vita della Vergine. Nei pressi dell’altare, nei pennacchi della cupoletta del presbiterio, si riconoscono inoltre i simboli dei quattro Evangelisti.
Ai lati del presbiterio, frontali, è posta da un lato l’ immagine di Sant’Anna insieme alla Vergine fanciulla e dall’altro di San Gioacchino, mentre nei sottarchi sono raffigurati San Francesco d’Assisi e Santa Francesca Romana.
In ognuna delle due navate laterali ci sono 4 altari: a destra il primo è dedicato a Sant’Antonio di Padova, il secondo a San Giuseppe, il terzo alla Deposizione dalla Croce e l’ultimo a San Luigi Gonzaga. Nella navata sinistra, invece, gli altari sono dedicati a Santa Lucia, a San Carlo Borromeo, al Sacro Cuore di Gesù e a Santa Teresina, mentre l’ultimo alla Santissima Trinità. San Carlo Borromeo venne realizzato probabilmente da Giuseppina Testa intorno al 1892, come dalla firma apposta sulla base dell’inginocchiatoio, mentre la Santissima Trinità è attribuibile ad Enrico Cinti.
I dipinti alla fine delle navate laterali e a ridosso dell’organo – quest’ultimo è rivolto verso l’interno della chiesa – rappresentano per immagini la storia della fede sanvitese. A sinistra, sul fondo della navata, è posta, infatti, l’immagine dell’apparizione della Vergine al fanciullo sordomuto, mentre a destra e sulla cantoria la processione e l’incoronazione del 22 agosto del 1948, realizzate dallo stesso Del Vecchio.

Diversi i miracoli della Madonnina di Compigliano, a lei si attribuisce la guarigione dei sanvitesi dalla peste e dal colera nella seconda metà del XIX secolo, avvenuta durate la processione.
Il 22 agosto 2008, con una solenne celebrazione presieduta da S.E. Domenico Sigalini, Vescovo della Diocesi di Palestrina e da Mons. Francisco Hernandez, Parroco di San Vito Romano si è ricordato il cinquantesimo dell’Incoronazione.

San Vito

San Vito è un popolare martire che la tradizione vuole nativo di Mazara del Vallo nel III secolo. Fervente cristiano fu denunciato dal padre e, arrestato da Valeriano, venne torturato inutilmente affinché abiurasse. Dal carcere venne miracolosamente liberato da un angelo e si recò a predicare in Lucania con il suo precettore Modesto e l’affezionata nutrice Crescenzia. La sua fama di taumaturgo arrivò alle orecchie del crudele Imperatore Diocleziano, il quale chiese a Vito di liberare il figlio dalla possessione demoniaca, o, più probabilmente, dall’epilessia. Ottenuta la guarigione però l’imperatore lo fece imprigionare e torturare. Nuovamente liberato per intervento angelico, Vito si recò presso il fiume Sele, ad Eburnum (Eboli) dove il 13 il o 15 giugno del 303 d.C. venne arrestato e giustiziato, assieme ai suoi amici.
Dalla figura del giovane martire deriva dunque il toponimo San Vito a cui si aggiunse Romano con il Decreto Regio del 16 maggio 1872. Sebbene si riconosca nell’abitato intorno alla chiesa di San Biagio il primo nucleo, cosiddetto medievale, il toponimo venne assegnato dai Monaci Benedettini tra il 1085 ed il 1180 e questo fa presupporre che sull’altura ove sorge la chiesa vi fosse una cappella rurale dedicata al Santo e che in quella rupe inaccessibile, aperta solo da alcune spelonche, vi si fossero rifugiati i primitivi abitanti durante le incursioni dei Saraceni. Tra l’ 847 e l’ 855 pare infatti che questi si fossero spinti oltre Roma, nelle aree dei monti Prenestini (A. Rocca, p. 24). Ad ogni modo la chiesa, ad unica navata, è databile al 1725, ed appartiene a quel piano di risistemazione urbanistico patrocinato dai Theodoli: sulla sommità dell’altare maggiore si riconosce per questo lo stemma del Casato (la ruota a cinque raggi).
Risale dunque alla prima metà del Settecento la struttura, la decorazione dell’altare, la parte centrale del soffitto, con la tela della Gloria del Santo e la tela posta sull’altare di San Lorenzo, che si trova entrando, a destra della cantoria. A sinistra, l’altare di rimpetto è dedicato a Sant’Anna.
Accanto all’altare maggiore le tele che raffigurano scene di vita del Santo e del suo martirio sono attribuite ad Aronne del Vecchio (1910-1998) che eseguì anche commissioni per la chiesa di Santa Maria de’ arce e che restaurò l’effigie della Madonnina di Compigliano per l’anno dell’incoronazione (1948).
La chiesa del Patrono è priva di campanile e l’unica campana presente è contenuta in una sopraelevazione del tetto a forma di piramide.

Santi Rocco e Sebastiano

La chiesa dei Santi Sebastiano e Rocco e l’adiacente palazzo, che divenne il Convento dei Carmelitani, rientrarono nel vasto programma di sistemazione dell’abitato da parte del Cardinale Mario Theodoli, avvenuta tra il 1640 ed il 1660 circa. Sistemata la chiesa, forse nata su un tempietto rurale, e costruito il Convento sulla parte orientale del Borgo, nel 1679 vennero chiamati da Carlo Theodoli i Padri Carmelitani di Roma Montesanto ai quali fu affidata la cura delle anime di San Vito.
Entrambi divennero proprietà comunale nel 1872: mentre la chiesa venne affidata alle suore del Preziosissimo Sangue, il Convento iniziò fin da allora ad essere utilizzato come Residenza Municipale.
L’opportunità del restauro che dal 1999 al 2003 ha interessato la chiesa ha consentito di raccogliere un ampio materiale iconografico e storiografico che rappresenta le fondamenta del pregevole volume curato dall’architetto Donatella Fiorani, La chiesa dei SS. Sebastiano e Rocco in San Vito Romano. Storia e restauro, edito da Gangemi nel 2003.
La chiesa pare sorga su una cappella rurale preesistente all’apertura del borgo nel 1649.
La sua storia non può prescindere da alcuni elementi essenziali: la famiglia Theodoli, la presenza dei Padri Carmelitani a San Vito e la costruzione del Convento nel quale questi vennero chiamati. Elementi che insieme all’apertura del borgo seicentesco rappresentano un unicum strutturale di straordinaria valenza urbanistica e territoriale. Il Cardinale Mario Theodoli nella prima metà del Seicento volle ampliare l’abitato lungo l’asse rettilineo che da lui prese il nome e che costituisce il corso principale entro il quale si snoda la vita cittadina. Suddivisa in tre spazi, quasi al centro del Borgo, la chiesa è ricca di elementi decorativi riconducibili all’arte barocca.
Mentre San Rocco è celebrato e ricordato nel giorno della sua morte, il 16 agosto, San Sebastiano è poco conosciuto: come San Vito morì durante le atroci persecuzioni dell’Imperatore romano Diocleziano. Nato a Milano intorno al 256, fu fedele militare dell’Imperatore che quando scoprì la sua fede cristiana si sentì tradito e lo condannò a morte. Legato ad un palo in un sito del colle Palatino, il giovane venne denudato e trafitto da così tante frecce in ogni parte del corpo da sembrare un istrice. I soldati, al vederlo morente e perforato dai dardi, lo credettero morto e lo abbandonarono sul luogo affinché le sue carni cibassero le bestie selvatiche. Santa Irene che andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, si accorse che il soldato era ancora vivo, per cui lo trasportò nella sua dimora sul Palatino e prese a curarlo dalle molte ferite con pia dedizione. Sebastiano, prodigiosamente sanato, decise di continuare a proclamare la sua fede al cospetto dell’Imperatore che tuttavia diede freddamente ordine di flagellarlo fino alla morte. Castigo che fu eseguito nel 304 nell’ippodromo del Palatino. Il corpo venne gettato nella Cloaca Maxima e, recuperato da mani pietose, sepolto nelle catacombe dette appunto di San Sebastiano.
Il medaglione centrale del soffitto del vestibolo ottagonale è dedicato a San Sebastiano raffigurato nel momento della gloria e tutti intorno, ad otto santi Carmelitani è dedicato ognuno dello spicchio del controsoffitto. Al di sopra dell’altare maggiore, che il restauro ha ripristinato tra il primo ed il secondo spazio, l’immagine dell’Eterno Padre, inquadrata in un tondo, s’impone sulla platea dei fedeli: incoronato da due putti, sovrasta le due Virtù. 

Ai lati dell’altare emergono invece gli elementi araldici che denotano l’antica proprietà Theodoli e la presenza dei Carmelitani: su entrambi i lati lo stemma dei Carmelitani è sul parapetto, e appena al di sotto un putto sorregge il blasone coronato Theodoli-Sacchetti. Tuttavia mentre il pulpito di destra è fiancheggiato dalle statue del Profeta Elia e di San Sebastiano, in quello di sinistra si ritrovano San Rocco ed il Profeta Eliseo. Le tele laterali invece rappresentano a destra la Visione di San Giuseppe mentre a sinistra la Morte di San Sebastiano. Sul fondo del secondo spazio, nella cunetta a parete, si trova la Madonna del Carmine o del Carmelo, a cui si fa risalire la fondazione dei Carmelitani, per opera del Profeta Elia che fu assunto in Cielo su un carro di fuoco sopra il Monte Carmelo, appunto, dove Egli vide una nuvola portare acqua dopo un lungo periodo di siccità. Nella provvidenziale nuvola venne riconosciuta la Madonna del Carmelo e nel profeta Elia il fondatore dell’ordine.
Significativa è la distribuzione del pane, simbolo dell’Eucarestia, che avviene il 16 agosto, in memoria di San Rocco, nato in Francia nel 1295 e morto il 16 agosto 1327. Questo recatosi a Piacenza per soccorrere gli ammalati di peste, contrasse il morbo e rifugiatosi in un antro al di fuori della città ebbe ogni giorno un tozzo di pane dal suo cane: entrambi i simboli ricorrono nell’iconografia del Santo e nell’iscrizione a principio del Borgo si legge il riferimento al Divino dissipatore della peste, ragion per cui è probabile che lo sviluppo del primo asse viario e del centro urbano voluto dai Theodoli fosse anche per creare nuovi spazi dopo un’avvenuta pestilenza nel 1630.

Testi di Irene Quaresima per il sito istituzionale del Comune di San Vito Romano

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